ABE: Cronache Regno di Napoli fra 1400 e 1500
L'invasione dei romagnoli di Galeotto Malatesta. La gran compagnia di ventura dall'Abruzzo a Terracina 1347
Arturo Bascetta, Sabato Cuttrera
Libro
editore: ABE
anno edizione: 2013
pagine: 96
In origine erano a Rimini, ma presto divennero famosi a Cesena. La carriera dei fratelli Malatesta cominciò con Galeotto, un giovane faccendiere che ben presto si distinse fra i signori della Romagna per la sua sagacia e intraprendenza nei negozi e negli intrighi. Eccolo a trattare alla corte di Ferrara, ora con la signoria di Cesena, ma la sua fama di grande mediatore la ebbe con lo scoppio della guerra di successione nel Regno di Napoli. Lì, col passaggio del testimone da Re Roberto alla nipote Giovanna I d'Angiò, si ebbero una serie di violenti ribellioni dopo l'uccisione di Re Andrea, fratello del sovrano Ludovico d'Ungheria.
Quattrocento napoletano. Lo Balzino di Ruggiero de Pacienzia. Nella fine degli Aragonesi di Napoli con re Federico e Isabella del Balzo
Libro: Copertina morbida
editore: ABE
anno edizione: 2012
pagine: 128
Cortei e feste sul finire del 1400 animano questo viaggio nel Regno degli Aragonesi di Isabella del Balzo e Federico I di Napoli spodestati da Francesi e Spagnoli. Fra lutti e miserie il popolo trovava il tempo per divertirsi festeggiando le visite dei sovrani per i paesi del Sud facendo della sfortuna una continua parodia. Sono le scene di piazza vissute attraverso i cronisti del secolo, specie Ruggerio de Piacentia, da Nerito a Barletta, da Bari a Benevento, ad Acerra e Napoli lungo la Via Appia Antica prima del crollo. Momenti di moda e di folclore che rivivono nelle pagine di storia vera fra le diverse etnie e personaggi goffi e potenti, capitani di ventura e pie donne che impreziosiscono il testo basato su diari coevi e cronache scevre da inquinamenti e manipolazioni storiografiche.
La battaglia di Cetara e il pascià Barbarossa. I turchi e le guerre franco-spagnole che sconvolsero il golfo di Salerno. 1508-1544 cronache del Regno di Napoli
Arturo Bascetta, Sabato Cuttrera
Libro
editore: ABE
anno edizione: 2012
pagine: 64
Spagnoli e Napoletani, da Algeri a Tunisi, spalleggiavano il Re tunisino per aver accettato la sottomissione all'Impero cristiano. La risposta si ebbe quando i Francesi si allearono con i Turchi, innescando una crudele Battaglia navale nel Golfo di Salerno, che portò l'armata 'Andrea Doria' a gettare l'ancora a Cetara con a bordo i Mori inferociti e i Francesi giunti dall'Abruzzo. Sotto le bombarde franco-genovesi perì anche il Viceré Moncada che finì i suoi giorni davanti al promontorio di Capo d'Orso. Lasciata Minori la guerra si trasferì a Napoli, assediata dal resto delle truppe di Lautrec, ma i Turchi con infiniti vascelli che percorsero il Mar Tirreno da capo a fondo, conquistando la maggior parte delle isole costiere, spazzarono via antichi luoghi ischitani, come Torino e Panza, e giunsero nuovamente a Cetara. Da qui la partenza dei Salernitani per rincorrere il terribile Pascià Ariodemo Barbarossa, fino in d'Africa, dove si ebbe l'ultima cruenta Battaglia in cui morì il Conte di Sarno e fu ferito il Principe Ferrante Sanseverino.
Don Giovanni da Procida nel 1282. L'anima nera dei Vespri Siciliani che insediò gli aragonesi a Ischia alla corte di Beatrice di Svevia
Arturo Bascetta, Sebastiano Cultrera
Libro
editore: ABE
anno edizione: 2023
pagine: 168
Confrontando gli ultimi documenti rinvenuti si riscontra che Giovanni era ancora vivente il 20 dicembre 1290. Lo stesso Giovanni, «il quale nel precedente Diploma era portato vivo nel di 20 dicembre 1298, era già morto nel di 23 gennaio 1299, laonde la sua morte dove avvenire o negli ultimi giorni di dicembre 1298 o nei primi giorni di gennaio del 1299». Ulteriori notizie e documenti furono rinvenuti sulla «espropriazione dei beni di Giovanni e sulla loro restituzione al figlio, specie in merito a certi diritti doganali e su un fondaco. Resta inteso che non risponde al vero il fatto che «la restituzione dei beni di Giovanni fu fatta in premio di un tradimento. Noi abbiam riportati i documenti che smentiscono questa ingiuriosa imputazione. Ne mancavano due altri che si sapeva esser conservati nella Biblioteca secreta Vaticana, e però non solo inediti, ma sconosciuti». Dice De Rienzo che «parrebbe da ciò che la famiglia de Procida sia un ramo dei Cossa o Salvacossa, antica e potente in Ischia, ed arrivata a gran potere nei tempi degli Angioini. Ma noi non possiamo affermarlo sulle labili basi di questa Cronachetta, molto più che facilmente si può spiegare l'errore: imperocchè sappiamo per documenti, anche da me riportati, che Marino Cossa o Salvacossa d'Ischia comprò Procida da Atinulfo di Procida nel dì 21 Marzo del 1340. Ora uno scrittore poco avveduto scrivendo quella cronaca anche sotto il Regno di Giovanna I, vedendo l'isola di Procida in potere della famiglia Salvacossa, poteva ben credere che Giovanni fusse appartenuto a quella famiglia». Nel «pregevole manoscritto, sebbene del secolo XVII», circolato col titolo di Nutamentu ex fasciculis Regiae, vi si trovano molte notizie. Altri 14 documenti riguardano la inquisitio facta in Procida, come da «indictionis super bonis Domini Johannis de Procida proditoris, qui dominium dictae Terrae habebat, ubi jura distincta dictae Terrae, et etiam alia bona quae dictus Johannes tenebat in Aversa, Villa Casalucis et Tullani», nonché in Terra Amalfi e «in Monte Corbino, que simul cum aliis bonis suis sitis in Salerno», quest'ultima revocata dall'arcivescovo salernitano. La riporta il Camera, facendo riferimento a un istrumento notarile dell'agosto 1303, «regnante dom. nostro Karolo secundo, nel quale parlandosi de beni di un tal Filippo Caniati siti in Montecorvino, nel lungo detto Laurito, si assegoano per confini ab occidente fines rerum quoniam domini Johannis de Proceda, a meridie finis rerum predie i quondam domini Johannis el aliorum». Singolare è il diploma rilasciato da Re Manfredi a Don Giovanni per la costruzione del Porto a cura della amministrazione comunale di Salerno nel 1259, quando non lui ma Gualtiero de Ocra era cancelliere del Regno di Gerusalemme e Sicilia nel Castello imperiale di Lucera. Insomma questo maestro di corte, quale fu Giovani da Procida, appare più il segretario del Palazzo di Capua, la terza carica, che un medico, capitale dove si trovava pochi giorni prima della morte del sovrano nel 1266. Seguirono negli anni altri autori che dissertarono sulle citazioni dei cronisti riferite alle pillole dei famosi quattro medici salernitani che si rifanno al medico Riccardo, i quali avrebbero seguito un protocollo, parlando ora di una cosa, ora delle malattie del fegato, citando la dottrina di Giovanni Plateario, studiata dagli specialisti, essendo «fuori ogni dubbio che le undici opere manoscritte che trovansi pelle biblioteche attribuite ad un medico Riccardo sono tutte scritte secondo le conosciute dottrine salernitane, e gli autori che vi si trovano citati son tutti salernitani, eccetto gli antichi, e raramente qualche arabo». Da qui l'interesse sulla presunta professione di medico di Don Giovanni, i quali «se non lo dimostrano Salernitano, almeno fan credere che abbia appreso medicina da maestri salernitani».
Il principato regio di re Manfredi Lo Svevo: 1258. «Meglio morir da Hohenstaufen che diseredati da Carlo d'Angiò»
Sabato Cuttrera
Libro: Libro in brossura
editore: ABE
anno edizione: 2022
pagine: 128
La lettura degli eventi storici si dimostra di grande interesse in questi ultimi anni, ma resta, anche per l'insegnamento, una materia di difficile comprensione. Lo storico non solo è chiamato a un ruolo di mediazione e confronto con gli eventi riportati dai cronisti più o meno coevi, senza interpolazioni e manomissioni ottocentesche, ma deve vestire i panni di un moderno Holmes. Il ricercatore di oggi è un investigatore, chiamato a indagare tra le fonti, senza mai lasciarsi ingannare dalla semplicità di ciò che appare essere stato documentato prima del suo arrivo. Il libro sul secondo Manfredi lo abbiamo titolato «Il Principato Regio di Manfredi lo Svevo», anche in omaggio a Barletta, ovvero alla Nova Barulo nata due anni dopo il sisma del 1088, e perciò detta Baruletta, che oggi sappiamo essere stata vicecapitale del Regno di Pavia di Re Corrado di Lorena dal 1092. Un libro di storia «verace» vuole essere anche questo: l'esercizio continuo della mente nella comprensione che la storiografia non può e non deve essere considerata immutata e stabile. L'abilità dello studioso sta nel farla diventare fluida, perché essa è in continua evoluzione, come la stessa immagine del sovrano svevo, spesso schiacciata dall'imponente figura del padre-imperatore. E così, il secondo volume su Manfredi, curato dall'Autore su ricerche di giornalisti moderni, immersi nei fatti come cronisti di allora, trova finalmente il risalto meritato. La forza e la tenacia con cui il Principe Svevo si oppose alle forze della Chiesa, costretto a fronteggiarsi con ben tre papi, mostrano intelligenza e saggezza di un uomo quasi prerinascimentale, spesso piacevolmente perduto fra musici e strabotti, ma che sul piano politico-diplomatico seppe instaurare una proficua rete di alleanze, rafforzate altresì da sontuosi matrimoni. Manfredi incarna la figura perfetta di sovrano moderno, pioniere e precursore dei reggenti illuministici, amante di filosofia, musica e di ogni forma d'arte. Egli è consapevole di quanto fosse importante l'opinione pubblica per un sovrano, carpita e rapita attraverso magnifici eventi e sfarzose feste, allorquando il politico diventa abile promotore della propria immagine, pur senza mai abbandonarsi a frivolezze e continuando con costanza a perseguire i suoi obbiettivi, divenendo una delle figure più potenti e carismatiche degli anni Duecento del primo Millennio. Sul luogo della sua morte, tanto discussa, vale la pena di aggiungere le parole che per lui ebbe un contemporaneo, Fra' Salimbene de Adam da Parma (Parma, 9 ottobre 1221 - San Polo d'Enza, 1288), un religioso, storico e scrittore italiano dei frati minori francescani, seguace di Gioacchino da Fiore e autore di una cronica trascritta come Cronaca di fra Salimbene parmigiano dell'ordine dei Minori, data alle stampe da Carlo Cantarelli. A suo dire non va sottaciuta «la bellezza della città di Manfredonia che il Principe Manfredi chiamò col suo nome, della quale egli fu fondatore» E quindi, a trent'anni dalla fondazione, egli stesso ricordava che «questa città fu costruita in luogo di un'altra città che si chiamava Siponto, che era distante due miglia. E se il Principe fosse vissuto qualche anno in più, la città di Manfredonia sarebbe diventata una delle più belle del mondo. È infatti tutta murata in giro per quattro miglia, come dicono, ed ha un porto sicurissimo. È alla radice del monte Gargano. La strada principale è già abitata; sono già poste le fondamenta delle case nelle altre strade, che sono larghissime e danno bellezza alla città. Peraltro il principe Manfredi ebbe alcune buone qualità, delle quali ho parlato a sufficienza nel trattato su papa Gregorio X. Lo storico deve infatti essere persona imparziale e non dire di qualcuno tutto il male, tacendone il bene». E' Salimbene che spiana la strada al lettore...
Un pugnale per Carlo III. L'assassinio del Re di Napoli nell'Ungheria del 1386
Arturo Bascetta, Sabato Cuttrera
Libro
editore: ABE
anno edizione: 2021
pagine: 128
L'esecutore materiale del delitto, Balázs Forgách, ebbe accesso alla sala del trono. Colpì il sovrano alla testa con la massima forza che avesse, adoperando un coltellaccio tenuto nascosto sotto il mantello. Il pugnale squarciò completamente il cranio, fino all'occhio sinistro del Re, accasciatosi esamine, mentre l'assassino lasciava la stanza con tutta calma. Il crudele esecutore, approfittando della confusione venutasi a creare, riuscì a fuggire dalla scena del crimine, mentre in molti accorrevano nella stanza, urlando di chiamare un dottore. Carlo III subì tre tagli: uno al viso, che gli fece perdere l'occhio sinistro, e due nella parte superiore del cranio. Stando al carteggio della Regina Maria, il bilanciere colpì più volte, ferendosi lo stesso assassino e Naccarella, sopraggiunta nella intrapresa lotta per il disarmo. Re Carlo, sebbene avesse subito la terribile ferita, non cadde, ma si alzò dallo sfortunato posto in cui sedeva e mosse passi lenti e fluttuanti, lasciando lunghe tracce di sangue sul pavimento d'oro e d'argento. Fatti pochi passi fu rinchiuso in una stanza fino alla settima ora della notte, e poi, per volere della Regina Elisabetta, fu trattenuto prigioniero con i pochi rimasti al suo seguito. Nel silenzio di quella notte, i complici delle regine e del palatino, irruppero selvaggiamente nella camera da letto del sovrano ferito. Lo tirarono fuori dalla porta e lo trassero prigioniero nella torre più alta. Carlo III di Napoli non ebbe più modo di profferir parola. Ma non era ancora morto.